Le Mille e una Notte Storia del Medico Ebreo e Storia del Giovane di Mossul.

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Le mille e una notte - Introduzione

1400 ca.

Le mille e una notte.

Scritti originariamente in arabo, i racconti delle Mille e una notte furono raccolti in un arco di tempo di ben seicento anni.

Capolavoro della letteratura araba, l'opera è entrata a far parte del patrimonio letterario mondiale.

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LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DEL MEDICO EBREO E STORIA DEL GIOVANE DI MOSSUL

STORIA DEL MEDICO EBREO

Sire, quando studiavo medicina, e cominciavo ad esercitare quest'arte con qualche reputazione, uno schiavo venne a cercarmi, perché andassi a visitare un infermo dal governatore della città. Vi andai e venni introdotto in una camera, dove trovai un uomo di età giovanile e di bellissimo aspetto, ma molto abbattuto. Lo salutai, sedendomi vicino a lui, ma lui non rispose alla mia cortesia. Invece mi fece cenno con gli occhi, per farmi capire che udiva quello che dicevo e che mi era grato.

«Signore», gli dissi, «vi prego di porgermi la mano, perché vi senta il polso.»

Invece di darmi la mano destra, mi presentò la sinistra; ne restai estremamente sorpreso.

«Questo», dissi fra me stesso, «è un grande ignorante, e non sa che si deve presentare al medico la destra e non la sinistra.»

Tuttavia gli tastai il polso, e, dopo avere scritto una ricetta, me ne andai.

Continuai le mie visite per nove giorni, e ogni qual volta volli tastargli il polso, mi presentava la mano sinistra. Al decimo giorno mi parve che stesse bene, e gli dissi che ormai non aveva da fare altro che andarsene al bagno.

Il governatore di Damasco, che si trovava presente, per dimostrarmi quanto fosse contento di me, mi fece rivestire alla sua presenza di una ricchissima veste, dicendomi che voleva farmi medico dell'ospedale della città e medico ordinario della sua casa, dove avrei potuto andare con tutta libertà a mangiare alla sua tavola, quando mi fosse piaciuto.

Il giovane mi fece pure grandi cortesie e mi pregò di accompagnarlo al bagno. Vi entrammo, e, quando le sue genti lo ebbero spogliato, vidi che era privo della mano destra, che doveva essergli stata tagliata da poco tempo e quella doveva essere stata la cagione della sua malattia, e mentre altri gli applicavano medicamenti per guarirlo in fretta, io ero stato chiamato per vincere la febbre che era sopravvenuta.

Restai molto sorpreso e grandemente afflitto nel vederlo in quello stato, ed egli, accorgendosene dal mio viso:

«Dottore», mi disse, «non vi stupite di vedermi la mano tagliata: un giorno ve ne dirò il motivo, e udrete una delle storie più stravaganti che possiate immaginare».

Usciti dal bagno, ci mettemmo a tavola, e poi, conversando mi chiese se poteva, senza pregiudizio della sua salute, andare a passeggiare fuori della città nel giardino del governatore.

Gli risposi che, non solamente poteva, ma che gli avrebbe fatto molto bene prendere aria, per ristabilirsi in salute.

«Quand'è così», replicò, «se volete tenermi compagnia io vi racconterò la mia storia.»

Assicurai che ero a sua completa disposizione per tutta la giornata; allora egli comandò alle sue genti di preparare una colazione; poi partimmo, dirigendoci al giardino del governatore.

Passeggiando, facemmo due o tre giri nel giardino, poi ci sedemmo su un tappeto, disteso sotto un albero e il giovane mi fece in questo modo il racconto della sua storia.

STORIA DEL GIOVANE DI MOSSUL

Sono nativo di Mossul, e la mia famiglia è una delle più considerevoli della città. Mio padre era il maggiore di dieci figli, che erano tutti vivi e maritati quando mio nonno morì. Ma di questo gran numero di fratelli, mio padre fu il solo che ebbe figli.

Ebbe gran cura della mia educazione e mi fece imparare tutto ciò che un fanciullo della mia condizione deve sapere.

Ero già abbastanza grande e cominciavo a frequentare la società, quando un venerdì mi trovai alla preghiera del mezzogiorno con mio padre ed i miei zii, nella gran moschea di Mossul.

Dopo la preghiera uscirono tutti, fuorché mio padre e i miei zii che si sedettero sopra il tappeto disteso per tutta la moschea. Mi sedetti con loro e, conversando di molte cose, il discorso insensibilmente andò a cadere sopra i viaggi. Essi vantarono le bellezze e le singolarità di certi regni e delle loro città, ma uno dei miei zii dichiarò che tutti i viaggiatori erano d'accordo nel dire che non vi era al mondo un paese più bello dell'Egitto.

Ciò che ne disse me ne diede un'idea tanto grande, che da quel momento desiderai andarvi.

Ciò che gli altri miei zii dissero in favore di Bagdàd o del paese del Tigri non mi fece la medesima impressione.

Mio padre approvò il discorso di quello dei suoi fratelli che aveva parlato a favore dell'Egitto: e questo mi rallegrò molto.

«Qualunque cosa si possa dire o pensare», esclamò, «chi non ha visto l'Egitto, non ha visto ciò che di più singolare c'è nell'universo. La terra d'oro, cioè tanto fertile, che rende ricchi i suoi abitanti. Tutte le donne incantano o per la loro bellezza, o per il loro atteggiamento.

Non parliamo poi del Nilo; c'è forse un fiume più meraviglioso? Quale acqua fu mai più leggera e più deliziosa? Il fango stesso, che trascina con sé nella sua inondazione, non ingrassa forse le campagne, le quali senza lavoro producono mille volte più delle altre, che vengono coltivate a prezzo di tante fatiche?

Udite ciò che un poeta, obbligato ad abbandonare l'Egitto, diceva agli egiziani: "Il vostro Nilo vi ricolma giornalmente di ricchezze e viene da lontano solamente per voi! Ohimè, allontanandomi da voi le mie lacrime scorrono con tanta abbondanza come le sue acque: voi continuerete a godere le sue dolcezze, mentre io sono condannato a privarmene, contro la mia volontà".»

«Se voi guardate», soggiunse mio padre, «dalla parte dell'isola formata dai due rami maggiori del Nilo, quale varietà di piante, che smalto d'ogni sorta di fiori! Che quantità di città e di borghi, di canali e di mille altre meraviglie!

Se invece volgete lo sguardo dall'altra parte, risalendo verso l'Etiopia, quanti altri motivi di ammirazione! Non posso descrivere il verde di tante campagne irrigate dai diversi canali dell'isola, se non paragonandolo a tanti smeraldi incastonati nell'argento. Il gran Cairo non è forse la città più vasta, più popolata e più ricca dell'universo? Quanti edifici magnifici sia pubblici che privati! Se andate fino alle piramidi, restate vinti dallo stupore e immobili alla vista di quelle costruzioni di pietra di un'enorme grandezza che s'innalzano fino ai cieli: e siete obbligati a confessare che i faraoni, i quali hanno impiegato a costruirle tante ricchezze e tanti uomini, hanno superato in magnificenza e invenzione tutti i monarchi della terra, per aver lasciato simili monumenti alla loro memoria. Questi monumenti così antichi, che i sapienti non possono e non riescono ad accordarsi sul tempo in cui sono stati innalzati, ci sono ancora oggi, e dureranno quanto i secoli.

Passo sotto silenzio le città marittime dell'Egitto, come Damiata, Rosetta Alessandria, dove non so quante nazioni vanno a prendere ogni specie di granaglie, di tele e di mille altre cose per la comodità e la delizia degli uomini.

Io ve ne parlo, perché conosco bene tutto ciò: vi passai diversi anni della mia gioventù, e me ne ricorderò finché avrò vita come degli anni più piacevoli della mia vita.»

I miei zii non poterono replicare nulla a mio padre - proseguì il giovane di Mossul - e affermarono che quanto egli aveva detto del Nilo, del Cairo e di tutto il regno d'Egitto era verissimo. In quanto a me ne restai così ammirato, da non poter dormire tutta la notte.

Poco tempo dopo i miei zii, per dimostrare quanto fossero stati convinti dal discorso di mio padre, gli proposero d'intraprendere tutti insieme un viaggio in Egitto.

Egli accettò la proposta: e siccome erano ricchi mercanti, risolvettero di portare con sé molte mercanzie, per venderle.

Avendo saputo che facevano dei preparativi per la partenza, andai a trovare mio padre, supplicandolo con le lacrime agli occhi di permettermi di accompagnarli.

«Sei ancora troppo giovane», mi disse, «per intraprendere il viaggio: la fatica è troppo grande, e per di più sono persuaso che ti ci perderesti.»

Queste parole non mi tolsero il desiderio di viaggiare. Pregai i miei zii d'intercedere per me ed essi ottennero da mio padre che mi lasciasse almeno andare fino a Damasco, dove li avrei aspettati.

«La città di Damasco», disse mio padre, «ha pure le sue bellezze; si accontenti per ora del permesso di andare fin là.»

Sebbene avessi grandissimo desiderio di vedere l'Egitto, mi sottomisi al volere di mio padre.

Partii dunque da Mossul con lui e con i miei zii. Attraversammo la Mesopotamia, passammo l'Eufrate, arrivammo in Aleppo, dove sostammo per pochi giorni, e di là ci recammo a Damasco, che di primo acchito mi sorprese piacevolmente.

Alloggiammo tutti nello stesso albergo.

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Vidi una grande città, popolosa, abitata da persone ricche ed eleganti, e ben fortificata. Trascorremmo qualche giorno a passeggiare e a divertirci nei giardini deliziosi dei dintorni, e ci convincemmo che Damasco è situata al centro di un paradiso.

I miei zii si decisero finalmente a continuare il loro cammino, ma prima si preoccuparono di vendere la mia parte di mercanzie e lo fecero così vantaggiosamente che guadagnai il cinquecento per cento. Questa vendita mi rese possessore di una somma considerevole.

Mio padre e i miei zii mi lasciarono dunque a Damasco e proseguirono il loro viaggio.

Dopo la loro partenza mi preoccupai di non sperperare il mio danaro: ciò nonostante pigliai in affitto una casa magnifica, tutta di marmo adorna di pitture a fogliami d'oro e azzurro, con un giardino, dove c'erano bellissime fontane. L'addobbai, per la verità, non con quel lusso che la magnificenza del luogo avrebbe richiesto, ma almeno con molta eleganza per un giovane della mia condizione.

Era stata nel passato di uno dei principali signori della città, che si chiamava Modun Abd ar-Rahìm, e apparteneva ora ad un ricco gioielliere, al quale pagavo duecento dinàr al mese. Avevo un numero grandissimo di domestici, e vivevo con molto agio; invitavo spesso alla mia tavola quelle persone con le quali avevo stretto amicizia, e qualche volta andavo io a mangiare da loro; così passavo il mio tempo a Damasco, aspettando il ritorno di mio padre: nessuna passione disturbava il mio riposo, e l'amicizia di persone dabbene rappresentava la mia unica occupazione.

Un giorno, me ne stavo seduto sulla soglia della mia casa a godere il fresco, quando una dama vestita con molta eleganza e di bell'aspetto, venne da me, domandandomi se vendevo drappi; così dicendo entrò nella mia casa.

Quando vidi che la dama era entrata in casa, mi alzai, chiusi la porta, e la feci accomodare in una sala.

«Signora», le dissi, «ho avuto delle stoffe degne di esservi mostrate, ma ora non le ho più, e me ne rincresce molto.»

Ella si levò il velo e presentò ai miei sguardi una bellezza che mi commosse nel più profondo del cuore.

«Non ho bisogno di stoffe», mi rispose, «vengo solo per vedervi e per trascorrere la sera in vostra compagnia, se ciò vi fa piacere, vi chiedo solo una piccola cena.»

Felice di una simile fortuna, ordinai alle mie genti di preparare molte qualità di frutta e diverse bottiglie di vino.

Fummo serviti rapidamente, mangiammo e bevemmo, e ce la spassammo in allegria fino a mezzanotte: insomma non avevo mai passato una serata piacevole come quella.

La mattina seguente volli mettere dieci dinàr nelle mani della dama, ma lei li rifiutò con sdegno.

«Non sono venuta a trovarvi», disse, «per interesse, e mi fate un'ingiuria. Non voglio ricevere denaro da voi anzi voglio che ne riceviate da me, altrimenti non ritornerò più.»

Nello stesso tempo ella prese dieci dinàr dalla sua borsa e mi obbligò ad accettarli.

«Aspettatemi fra tre giorni», mi disse, «dopo il tramonto del sole.»

Poi mi salutò, e io sentii che nell'andarsene portava via il mio cuore.

Dopo tre giorni non mancò di tornare all'ora designata e io l'accolsi con tutta la gioia di un uomo che l'aspettava impazientemente. Passammo la sera e la notte, come la prima volta, e la mattina seguente, nell'andarsene, mi promise di ritornare fra tre altri giorni: e prima di salutarmi mi diede altri dieci dinàr.

Essendo tornata per la terza volta, quando il vino ci ebbe ambedue riscaldati, disse:

«Cuore del mio cuore, che pensate di me? Non sono forse bella e divertente?».

«Signora», le risposi, «mi pare che questa domanda sia inutile; le prove d'amore che vi riservo debbono persuadervi che sono innamorato di voi. Sono felice di vedervi: voi siete la mia sultana, la felicità della mia vita.»

«Ah! sono sicura», mi disse, «che non parlereste così se aveste visto una mia amica, più giovane e più bella di me. Essa è di un carattere così allegro, da far ridere le persone più malinconiche. Le ho parlato di voi, ed essa muore dalla voglia di vedervi. Mi ha pregata di procurarle questo piacere, ma non ho osato soddisfarla, senza avervene prima parlato.»

«Signora», ripigliai, «fate ciò che volete: ma qualunque cosa possiate dirmi della vostra amica, sono certo che nessuna grazia di lei potrà toccare il mio cuore, che è così attaccato a voi, che nulla potrà distaccarlo.»

«State in guardia», replicò, «vi avverto che sottoporrò il vostro amore a una prova molto difficile.»

La mattina seguente, nell'andarsene, invece di lasciarmi dieci dinàr me ne diede quindici.

«Ricordatevi», mi disse, «che tra due giorni avrete una nuova ospite; pensate ad accoglierla gentilmente, verremo all'ora solita dopo il tramonto del sole.»

Feci ornare la sala, e preparare una bella cena per la sera in cui dovevano venire.

Aspettavo le due dame con impazienza, e finalmente giunsero sul fare della notte.

L'una e l'altra si levarono il velo, e, se ero stato sorpreso della bellezza della prima, restai estatico quando vidi la sua amica. Aveva fattezze regolari, volto perfetto, e occhi così brillanti, che se ne poteva a stento sostenere lo splendore.

Io la ringraziai dell'onore che mi faceva, e la pregai di scusarmi se non l'accoglievo come meritava.

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«Non facciamo complimenti», mi disse, «toccherebbe a me farvene, perché avete permesso alla mia amica di condurmi qui, ma, poiché avete la bontà di sopportarmi, lasciamo da parte i complimenti e non pensiamo che a divertirci.»

Ci mettemmo subito a tavola; stavo di fronte alla nuova venuta, che non cessava di guardarmi, sorridendo. Non potei resistere ai suoi sguardi voluttuosi, ed ella divenne padrona del mio cuore, senza che me ne potessi difendere; ed ella, mentre risvegliava il mio amore, ne fu presa a sua volta, e, invece di difendersene, mi parlò con molto calore.

L'altra dama che ci osservava non fece da principio che ridere.

«Ve lo avevo detto», esclamò, parlando con me, «che avreste trovato la mia amica graziosa e mi accorgo che avete già mancato al giuramento di essermi fedele.»

«Signora», le risposi ridendo, «avreste ragione di lamentarvi se mancassi di cortesia verso la vostra amica; allora tutte e due potreste rimproverarmi di non saper fare gli onori di casa.»

Continuammo a bere: ma a misura che il vino ci riscaldava, la nuova dama ed io ci comportavamo con così poco ritegno, che la sua amica fu presa da una violenta gelosia, e ben presto ce ne diede una funesta prova.

Ella si alzò e uscì, dicendo che sarebbe ritornata subito; ma pochi momenti dopo l'altra dama che era rimasta con me impallidì, fu presa da grandi convulsioni ed in breve morì fra le mie braccia.

Uscii subito, cercai l'altra dama, ma le mie genti mi dissero che aveva aperto la porta che dava sulla strada e se n'era andata. Sospettai allora, che avesse provocato deliberatamente la morte della sua amica; ed invero aveva avuto la destrezza e la malizia di versare un violentissimo veleno nell'ultima tazza che lei stessa le aveva porto.

Restai vivamente afflitto da simile fatto.

«Che farò mai?», dissi allora fra me, «che sarà di me?»

Intanto feci sollevare dalle mie genti una delle grandi pietre di marmo, che pavimentavano la corte della mia casa, e feci scavare sollecitamente una fossa, in cui seppellimmo il corpo della giovane dama. Dopo aver ricollocata al suo posto la pietra di marmo, mi vestii da viaggio, presi il mio denaro, chiusi la porta di casa, la sigillai con il mio sigillo, poi andai dal gioielliere proprietario della casa, gli pagai un anno d'affitto, gli diedi la chiave, pregandolo di custodirmela e dicendogli che un affare di gran premura mi obbligava a recarmi per qualche tempo dai miei zii al Cairo. Mi congedai da lui, e subito salii a cavallo e partii con le mie genti, che mi aspettavano.

Il mio viaggio fu felice - proseguì il giovane di Mossul -. Giunsi al Cairo senza aver fatto cattivi incontri.

Trovai i miei zii, che furono molto meravigliati di vedermi. Dissi loro, per scusarmi, che mi ero annoiato nell'attesa e che ero inquieto, non avendo ricevuto nessuna notizia, e che per questo ero partito. Mi accolsero con piacere, e promisero di fare il possibile perché mio padre non si sdegnasse perché ero partito senza il suo permesso da Damasco. Alloggiai con loro nello stesso albergo, e vidi quanto di bello vi era al Cairo.

Quando ebbero terminato di vendere le loro mercanzie, essi cominciarono a pensare di ritornarsene a Mossul e già cominciavano a fare i preparativi per la partenza, ma io non avevo ancora visto tutto quello che volevo vedere in Egitto, così abbandonai i miei zii, e andai ad abitare in un quartiere molto lontano dal loro albergo.

Essi mi cercarono lungamente per tutta la città, ma non trovandomi, pensarono che il rimorso di essere venuto in Egitto contro l'ordine di mio padre, mi avesse spinto a tornare di nascosto a Damasco, e partirono con la speranza d'incontrarmi là e di riunirsi a me al loro passaggio.

Restai dunque al Cairo dopo la loro partenza e mi fermai là tre anni, per appagare pienamente la mia curiosità vedendo tutte le meraviglie d'Egitto.

In quel tempo ebbi cura di mandare del denaro al gioielliere, scrivendogli di tenere a mia disposizione la sua casa, giacché avevo in progetto di ritornare a Damasco e di fermarmi ancora per qualche tempo. Non mi accadde al Cairo nulla che meriti di essere narrato, ma senza dubbio resterete molto sorpreso nell'udire quanto mi avvenne al mio ritorno a Damasco.

Arrivato in questa città andai alla casa del gioielliere, che mi accolse con giubilo, e volle accompagnarmi di persona fino alla mia casa, per farmi vedere che nessuno vi era entrato durante la mia lontananza. E infatti il mio sigillo era ancora sulla porta.

Riordinando e spazzando la camera, dove avevo mangiato con le dame, uno dei miei domestici trovò una collana d'oro a forma di catena, in cui erano infilate, a spazi alternati, dieci perle grossissime e perfette. Me la portò e la riconobbi: era quella che avevo vista al collo della giovane dama avvelenata. Immaginai che si fosse slacciata e fosse caduta, senza che me ne accorgessi.

Non potei guardarla senza versare molte lacrime, ricordando una persona tanto amabile che avevo visto morire in una maniera così funesta. L'avvolsi accuratamente e me la posi come cosa preziosa sul cuore.

Passai qualche giorno a rimettermi dalla fatica del viaggio, dopo di che cominciai a visitare le persone con le quali nel passato avevo stretto amicizia. Mi abbandonai a ogni sorta di piaceri, e insensibilmente consumai tutto il mio avere. In tale stato, invece di vendere i miei mobili, risolvetti di liberarmi della collana; ma non avevo esperienza di perle, e me la sbrigai molto male, come vedrete.

Andai al bazar, dove prendendo a parte un banditore, gli mostrai la collana, dicendogli che volevo venderla.

«Ah! che bella cosa!», esclamò, dopo averla lungamente guardata con ammirazione. «I nostri mercanti non hanno mai veduto nulla di simile. La mostrerò loro e vedrete che vi faranno un ottimo prezzo.»

Mi condusse a una bottega, che era precisamente quella del mio padrone di casa.

«Aspettatemi qui», mi disse il banditore, «e ritornerò in breve a portarvi la risposta.»

Mentre, con molta segretezza andava di mercante in mercante a mostrare la collana, mi sedetti vicino al gioielliere, che ebbe molto piacere di vedermi e cominciammo a chiacchierare di cose indifferenti.

Il banditore tornò e mi tirò in disparte. Non mi disse, come speravo, che la collana era stata stimata di un valore di almeno duemila dinàr, ma anzi mi riferì che non volevano darne più di cinquanta.

«Mi hanno detto», mi spiegò, «che le perle sono false. Vedete voi se vi conviene venderla a queste condizioni.»

Credendo a quanto mi diceva, e avendo bisogno di denaro gli dissi:

«Andate, mi rimetto a quanto mi dite e a quanto dicono coloro che se ne intendono più di me, vendetela e portatemi subito il denaro».

Il banditore era venuto ad offrirmi cinquanta dinàr per conto del più ricco gioielliere del bazar, il quale aveva fatto quest'offerta per mettermi alla prova e per sapere se conoscevo il valore della collana; non appena seppe la mia risposta, condusse il banditore dal luogotenente criminale, e mostrandogli la collana:

«Signore», disse, «questa è una collana che mi è stata rubata, e il ladro, travestito da mercante, ha avuto l'ardire di venire a venderla qui. Anche attualmente si trova nel bazar. Egli si accontenta», proseguì, «di cinquanta dinàr per un gioiello che ne vale duemila. Nulla può provare con maggior chiarezza che è un ladro».

Il luogotenente criminale mandò subito ad arrestarmi, e arrivato alla sua presenza, mi chiese se la collana che teneva in mano fosse quella che avevo messo in vendita, nel Bazar.

«Sì», gli risposi.

«E' vero che la rilasciate per cinquanta dinàr?»

«Verissimo», gli risposi.

«Orbene», disse allora in modo beffardo, «che gli si diano cento bastonate; ci dirà tra poco che, anche con il suo bel vestito da mercante, non è che un ladro matricolato!»

La violenza delle bastonate mi fece dire una menzogna; confessai, contro la verità, che avevo rubato la collana, e subito il luogotenente criminale mi fece tagliare la mano.

Questo fatto produsse un grande scalpore nel bazar, e non appena fui ritornato a casa, vidi giungere il proprietario.

«Figlio mio», mi disse, «voi sembrate un giovane tanto saggio e bene educato; com'è mai possibile che abbiate commessa un'azione tanto indegna come quella della quale ho udito parlare? Voi stesso mi avete dimostrato di essere molto ricco. Perché mai non mi avete chiesto del denaro, se ne siete rimasto senza? Ve ne avrei dato in prestito: ma dopo l'accaduto non posso più oltre ammettere che dimoriate in casa mia. Andate quindi a cercarvi un altro alloggio.»

Rimasi molto mortificato da simili parole; pregai il gioielliere, con le lacrime agli occhi, di permettermi di restare ancora per tre giorni in casa sua, ed egli accettò.

«Ohimè», esclamai, «quale disgrazia, e quale affronto! Come avrò il coraggio di ritornare a Mossul? Tutto ciò che potrò dire a mio padre, potrà persuaderlo della mia innocenza?»

Tre giorni dopo quella disgrazia, vidi con stupore entrare in casa una schiera di gente del luogotenente criminale col proprietario della casa e il mercante che mi aveva falsamente accusato di avergli rubata la collana di perle.

Mi legarono strettamente coprendomi d'ingiurie, e dicendomi che la collana apparteneva al governatore di Damasco, che era più di tre anni che l'aveva perduta, e che, nella stessa occasione era sparita una delle sue figlie.

Giudicate del mio stato, allorché udii tale novità.

«Esporrò», dissi fra me liberamente, «la verità al governatore, e toccherà a lui perdonarmi o farmi morire.»

Condotto alla sua presenza, notai che mi guardava con occhio compassionevole, e ne trassi un augurio favorevole. Mi fece sciogliere, e rivolgendosi poi al gioielliere, mio accusatore, ed al proprietario della casa:

«E' questo», chiese loro, «l'uomo che ha messo in vendita la collana di perle?».

Appena ebbero risposto di sì, egli disse:

«Sono sicuro che non ha rubato la collana, e sono molto meravigliato che gli sia stata fatta un'ingiustizia tanto grande!».

«Signore, vi giuro che sono innocente; è vero che ho confessato di aver commesso la colpa di cui mi si accusa, ma tale confessione mi è stata strappata, contro la mia coscienza, per la violenza dei tormenti, e per una ragione che vi dirò, se avete la bontà di ascoltarmi.»

«Io ne so già abbastanza», replicò il governatore, «per rendervi in questo momento una parte della giustizia che vi è dovuta. Si porti via di qui», continuò, «il falso accusatore, e gli si faccia subire lo stesso supplizio inflitto ingiustamente a questo giovane, la cui innocenza mi è ben nota!»

Fu senza indugio eseguito l'ordine del governatore.

Il gioielliere fu condotto via e castigato come meritava. Dopo di che il governatore mi parlò in privato:

«Figlio mio, narratemi senza timore in che modo questa collana è caduta nelle vostre mani, e non nascondetemi nulla».

Gli raccontai allora interamente quanto era accaduto, confessandogli che avevo preferito passare per ladro, anziché rivelare il tragico caso capitatomi.

«Gran Maometto», esclamò il governatore quando ebbi finito di parlare, «i vostri giudizi sono incomprensibili, e senza protestare dobbiamo sottometterci ad essi! Io ricevo con intera sottomissione il colpo con cui avete voluto colpirmi.»

Poi, volgendosi a me, aggiunse:

«Figlio mio, dopo aver udito il motivo della vostra disgrazia, di cui sono afflittissimo, voglio ora narrarvi la mia. Sappiate che sono il padre delle due dame di cui mi avete parlato. La prima dama, che ebbe la sfacciataggine di venire a cercarvi fino in casa vostra, era la maggiore delle mie figlie. Io l'avevo maritata al Cairo a uno dei suoi cugini, figlio di mio fratello. Morto suo marito essa ritornò in casa mia, corrotta dalle sregolatezze imparate in Egitto. Prima del suo arrivo, la minore, quella che è morta in una maniera tanto deplorevole tra le vostre braccia, era molto savia e non mi aveva mai dato motivo di lamentarmi dei suoi costumi. La maggiore vivendo sempre con lei, insensibilmente la rese corrotta come lei.

Il giorno dopo quello della morte della mia figlia minore, siccome non la vidi nel mettermi a tavola, ne chiesi notizia alla maggiore, la quale era ritornata a casa: ma invece di rispondermi, ella proruppe in pianto tanto amaro che ne ebbi un funesto presagio. La stimolai a dirmi quanto sapeva:

"Padre mio", mi rispose, singhiozzando, "altro non posso dirvi, se non che ieri ella prese la sua veste più bella, la sua ricca collana di perle e se ne andò. Da allora non è più ritornata".

Feci ricercare mia figlia per tutta la città, ma nulla potei sapere del suo infelice destino; la maggiore, frattanto, che senza dubbio si pentiva del suo geloso furore, continuò ad affliggersi e piangere la morte di sua sorella: non volle più mangiare e con ciò pose fine ai suoi giorni».

«Questa», continuò il governatore, «è la condizione degli uomini: tali sono le disgrazie cui essi sono esposti! Ma figlio mio», soggiunse, «poiché siamo entrambi ugualmente sfortunati e infelici, uniamo i nostri dispiaceri, e non abbandoniamoci. Vi do in matrimonio la mia terza figlia; essa è più giovane delle sue sorelle, né ad esse in alcun modo assomiglia nella condotta: è pure dotata di maggiore bellezza: e vi posso assicurare che il suo carattere è tale da potervi rendere felice. Voi non avrete altra casa che la mia, e, dopo la mia morte, voi e lei sarete i miei soli eredi.»

«Signore», gli dissi, «sono confuso da tutti i vostri favori, e non potrò mai dimostrarvi la mia riconoscenza.»

«Lasciamo da parte i complimenti», mi interruppe, «e non perdiamo il tempo in discorsi vani.»

Poi fece chiamare diversi testimoni, e stese un contratto di matrimonio. Finalmente sposai sua figlia.

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Non contento di aver fatto castigare il gioielliere, che mi aveva falsamente accusato, fece anche confiscare a mio vantaggio tutte le sue ricchezze, che erano considerevolissime.

Del resto, da che venite a casa del governatore, avete potuto vedere in quanta stima egli mi tenga. Vi dirò inoltre, che un uomo, mandato dai miei zii in Egitto con l'ordine di rintracciarmi, avendomi scoperto nel passare di qui, mi consegnò una lettera in loro nome, nella quale essi annunciano la morte di mio padre, e mi invitano ad andare a prendere possesso della sua eredità a Mossul: ma poiché l'alleanza e l'amicizia del governatore m'impegnano a stare con lui e non mi permettono di allontanarmi, ho spedito un procuratore per prendere quanto mi appartiene.

Dopo quanto avete udito, spero vorrete perdonarmi la scortesia usata con voi, durante il corso della malattia, quando vi presentavo la mano sinistra invece della destra.

«Ecco», disse il medico ebreo al sultano Gasgar, «quanto mi narrò il giovane di Mossul.

Io mi fermai a Damasco, finché visse il governatore: dopo la sua morte, essendo nel fiore dell'età, ebbi la curiosità di viaggiare. Percorsi tutta la Persia e andai nelle Indie, e finalmente sono venuto a stabilirmi nella vostra capitale, dove esercito con onore la professione di medico.»

Il sultano di Gasgar giudicò quest'ultima storia molto bella.

«Confesso», disse all'ebreo, «che quanto mi hai narrato è straordinario, ma la storia del gobbo è molto più bella, quindi non sperare che ti conceda la vita; anzi voglio farvi impiccare ora tutti e quattro.»

Il sarto, avanzando e prostrandosi ai piedi del sultano:

«Giacché la maestà vostra ama le storie piacevoli, voglio narrarne una io pure».

«L'ascolterò volentieri», rispose il sultano, «ma non lusingarti che ti conceda la vita, se non sarà più interessante di quella del gobbo!»

Il sarto allora, come se fosse sicuro dell'esito, cominciò il suo racconto nel seguente modo.

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